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XI

I tacchini.

Intanto lo studio dei "miei libri" mi portò a considerare la possibilità di allevare tacchini. Naturalmente non i normali tacchini grigi e piccolini che si vedono su tutte le aie che si rispettano: tacchini bianchi giganti!

Più leggevo e più ero affascinato dall’idea. Il libro diceva che si potevano allevare all’aperto, che raggiungevano abbastanza velocemente i quaranta/cinquanta chili, non richiedevano particolari cure ed erano saporitissimi. Oltretutto erano al riparo dai ladri, perché molto aggressivi e si facevano avvicinare solo dal loro allevatore!

Ci rimuginai un po’ su, poi, con l’aiuto di una rivista di settore (allora non c’era Internet), localizzai un allevamento di questi straordinari animali in provincia di Modena.

Contattai telefonicamente l’azienda e mi confermarono che avrebbero potuto fornirmi un centinaio di uova ad un prezzo che mi sembrò ragionevole.

Presa la decisione, ordinai, sempre tramite la rivista, una capiente incubatrice e, non appena l’ebbi ricevuta, confermai la commissione delle uova. Sistemai l’incubatrice in uno dei locali nella parte non ristrutturata della casa, vi piazzai le uova e mi dedicai alla preparazione del recinto.

Calcolai di dedicare ai tacchini la zona che, dall’alto della strada, costeggiando la stradina di accesso, giungeva fino alla casa. Era un cerchio irregolare di circa quattromila metri quadrati: quasi trecento metri di recinto da costruire! Decisi di utilizzare una rete metallica piuttosto fitta, per impedire l’ingresso ad eventuali predatori, fissata a robusti pali in legno infissi nel terreno. Volendo distanziare i pali di quattro cinque metri l’uno dall’altro, occorrevano una settantina di pali.

Anche per i pali l’aiuto di Matteo mi fu prezioso: mi accompagnò, su per le colline, fino ad un posto in capo al mondo, dove un cortesissimo boscaiolo mi confermò di avere quello che mi occorreva. I pali erano già pronti ed appuntiti, pronti per essere utilizzati. Mi consigliò, per evitare che marcissero o che fossero attaccati da parassiti, di bruciare la parte che andava infissa nel terreno, prima di utilizzarli.

Ne ordinai un centinaio (tanto sarebbero sempre serviti) e mi assicurò che me li avrebbe consegnati personalmente col suo camion.

Ritornato in sede, mi accinsi a tracciare il perimetro della "zona tacchini" con l’aratro: bisognava fare un solco abbastanza profondo, perché la rete andava interrata almeno di trenta quaranta centimetri per evitare che volpi o altri predatori scavassero sotto.

Quando, sul trattore, cominciai a scavare il solco, mi sentivo come Romolo che tracciava i confini di Roma. Solo che io stavo più comodo e non dovevo spingere l’aratro.

Dopo tre giorni mi furono consegnati i pali e caddi in crisi: All’idea di doverli infiggere uno per uno nel terreno mi ero abituato, ma il pensiero di dover bruciare tute quelle punte, stando attenti a bruciarle al punto giusto mi creava qualche problema. E se li bruciavo troppo? E se li bruciavo troppo poco?

Mi tuffai nelle studio dei miei libri alla voce "recinti" e feci una meravigliosa scoperta: esistevano delle vernici antiparassitarie che facevano proprio al caso mio! Trovai facilmente la vernice al Consorzio Agrario e mi misi a lavoro.

Piantare i pali risultò un lavoro lungo ma non particolarmente gravoso: accennavo, col piccone, un buco nel terreno, vi sistemavo il palo e poi, in piedi sul sedile del trattore, lo conficcavo in profondità con vigorosi colpi di maglio. Si, è vero, mi capitò di mancare il bersaglio e di volare giù dal trattore dietro al pesante utensile, ma poi imparai.

Applicare la rete fu solo questione di pazienza, praticarvi la porticina di entrata fu invece un vero capolavoro di alta ingegneria!

Il recinto era ancora ben lontano dall’essere completato quando si dischiusero le uva, ma non era un problema perché i pulcini appena nati avevano bisogno, prima di essere lasciati all’aperto, di un periodo di ricovero al chiuso ed al caldo.

Su questo i libri erano stati prodighi di istruzioni: in una della stalle, con una rete alta una cinquantina di centimetri, feci un recinto circolare e ricoprii tutto l’interno con uno spesso strato di segatura. Al centro sospesi una grande lampada che emanava una fioca luce rossa ma tanto calore (credo fosse ad infrarossi), poi sospesi ancora tre distributori automatici di mangime e due di acqua da bere. I pulcini sembrarono gradire la sistemazione e si adattarono subito al nuovo ambiente.

Di cento uova se ne erano dischiuse ottantotto. Potevo essere soddisfatto. Intanto Camilla mi regalò tre splendidi cuccioli ma, al piacere che mi diede, si aggiunse il dispiacere per la scomparsa di Peppa, la più vivace delle due cagnette. Un mattino non la trovai ad attendermi fuori della porta con gli altri cani. La cercai dappertutto ma la mia ricerca doveva finire tristemente dopo tre giorni, quando scoprii che era caduta in fondo all’ultimo pozzo: quello grande all’estremo confine a sud. Il pozzo aveva un alto parapetto e, ancora oggi, non mi spiego come vi sia finita dentro.

I cuccioli di Camilla crescevano allegri e robusti e la madre provvedeva in modo esemplare alla loro educazione: io l’avevo abituata a non entrare in casa e lei sorvegliava i sui piccoli affinché si attenessero alle regole. Se qualcuno sgattaiolava all’interno, si affrettava a prenderlo per la collottola ed a riportarlo fuori. In quel periodo si aggiunse alla comitiva Dark, un cucciolo di pastore belga nero come la pece.

L’estate passò velocemente. Emma superò se stessa dedicandosi alle marmellate ed ai succhi di frutta, soprattutto di pere, che abbondavano ed era antieconomico vendere. Preparò anche un considerevole numero di bottiglie di pomodoro poi, con i bambini, se ne andò alla nostra casetta al mare.

Ritornò per la vendemmia: tutta la famiglia raccoglieva l’uva ed io col trattore, la trasportavo in una delle stalle, dove la versavo un una diraspatrice elettrica acquistata seguendo i consigli dei quattro o cinque libri sul vino, ultimi acquisti della mia biblioteca.

Naturalmente mi ero approvvigionato anche di un torchio e di alcuni grandi recipienti in vetroresina, che avevo sistemato, in fila, sulle mangiatoie. Seguendo scrupolosamente le istruzioni, riuscii a fare un vino abbastanza bevibile e, quando fu pronto, ne imbottigliai una buona parte.

Al momento della raccolta delle olive, comprai le apposite reti e le sistemai sotto gli alberi. In queste cose Matteo si sentiva sicuro e mi consigliò per il meglio durante tutte le operazioni, fino ad accompagnarmi al frantoio.

Tutto questo però ancora non riusciva a dare l’ombra di un reddito significativo. Dovevo aggiungere qualcosa di veramente redditizio...

Da qualche tempo mi trastullavo con l’idea di allevare delle capre, ma non avevo nessuna intenzione di andarmene su per le colline a pascolare il gregge. Poi incappai nel libro giusto che mi aprì la mente: si potevano allevare capre in un recinto chiuso, con un ricovero per la notte e per la pioggia, integrando la poca erba a disposizione con l’apposito mangime

   
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