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XIII

I castorini.

La scelta cadde sulle nutrie (castorini). La mia Bibbia diceva che le pelli, pur non essendo particolarmente pregiate, avevano un buon mercato e l’allevamento non presentava molte difficoltà. Ad ogni parto, si ottenevano dagli otto ai dieci piccoli e, a sei mesi, erano già in grado di riprodursi. Unico problema era la necessità di questi animali di vivere vicino all’acqua, dove amavano immergersi con frequenza. Inoltre, essendo dei roditori, erano in grado di scavare lunghe gallerie sotterranee ed uscire da qualsiasi recinto. Decisi di usare le porcilaie in cemento inutilizzate che erano lungo un lato della casa: erano sei, formate ognuna da una parte coperta ed uno spazio esterno munito di una vasca di cemento usata, a suo tempo come trogolo. Realizzai quindi un piccolo impianto che portava acqua a queste vasche ed ottenni sei piccole ville con piscina, pronte ad accogliere i nuovi abitanti.

Localizzai un allevamento in provincia di Bologna e, dopo gli opportuni accordi telefonici, andai a visitare l’azienda ed acquistai sei coppie di castorini. Gli animali si adattarono benissimo al nuovo ambiente e, ben presto, cominciarono a moltiplicarsi.

Purtroppo, come tutti sanno, la donna è volubile: la moda delle pellicce di castorino fu soppiantata da altre mode ed i miei animali continuarono felicemente ed inutilmente (per me) a prosperare.

Le povere bestie, nella loro inutilità, facevano comunque del loro meglio per disobbligarsi offrendo ai visitatori uno spettacolo inconsueto e richiamando qualche curioso che, talvolta, diventava cliente per altri prodotti.

La soddisfazione più grande la ebbi quando una maestra della scuola elementare di Ogliastro mi chiese il permesso di portare i suoi alunni a visitare l’azienda: Mi sentivo Callisto Tanzi che riceveva le scolaresche in visita alla Parmalat!

In verità la clientela non mancava: tutti sapevano che i miei animali erano allevati all’aria aperta e nutriti con prodotti naturali: il mio formaggio era notoriamente indenne da qualsiasi tipo di additivo ed era fatto utilizzando esclusivamente latte di capra, i miei polli ed i miei tacchini erano rigorosamente ruspanti e le carni risultavano sode e saporite. Le uova poi, non avevano nulla a che vedere con quelle che si trovavano normalmente in commercio.

La gente era disposta a pagare qualcosa in più per ottenere prodotti genuini e servivo anche qualche macelleria locale che vendeva i prodotti di "don Bicienzo" separatamente dagli altri ed a prezzi più alti.

Stipulai anche un buon accordo di collaborazione con un vicino agriturismo. L’estate poi, agli acquirenti abituali, si aggiungevano i villeggianti della vicina Agropoli, che univano al piacere della passeggiata in campagna, l’occasione di acquistare olio che con la chimica non aveva nulla a che fare, vino fatto con l’uva, formaggio, uova, eccetera.

Intanto avevo rifatto il tetto della parte vecchia della casa, avevo utilizzato i locali per farne depositi, sistemarvi l’incubatrice, le gabbie delle quaglie ed il mio piccolo "caseificio". Naturalmente non avevo un locale adibito a negozio e ricevevo i pochi clienti nella grande cucina, dove non mancavo mai di offrire un buon bicchiere di vino o un caffè.

La mia giornata non aveva un attimo di tregua: cominciava all’alba con la prima mungitura e finiva alla sera, quando, non di rado, mi addormentavo sul pentolone del latte mentre facevo il formaggio.

Il lavoro fisico, anziché stancarmi, mi temprava. Non soffrivo assolutamente la solitudine e mi ero abbastanza integrato nell’ambiente del piccolo paese. Mi piaceva andare all’ufficio postale per qualche bolletta da pagare e qualche raccomandata, ed essere l’unico cliente: i tre impiegati si alzavano dai loro tavoli e venivano al banco sorridenti, si dividevano tra loro il piccolo lavoro che avevo portato e, sbrigatolo velocemente, restavamo un quarto d’ora a chiacchierare piacevolmente.

Non mi dava più fastidio andare al negozio di ferramenta e, trovatolo vuoto, dover cercare il proprietario nel bar di fronte ed attendere che finisse la partita a scopa. Quella gente aveva i suoi tempi ed era diventato piacevole adeguarvisi.

D’altra parte capitava pure che venissero a fare acquisti da me e, dopo aver bussato invano, entrassero in casa per venire a svegliarmi da un pisolino fuori programma. Ormai le paure iniziali non esistevano più e dormivo tranquillamente con le porte aperte.

Con i vicini si era stabilito un buon rapporto di collaborazione: venivano a darmi una mano quando c’era da raccogliere ed imballare il fieno o qualche altro lavoro che proprio non potevo fare da solo, ed io ricambiavo ogni volta che potevo, rendendomi utile col mio piccolo trattore.

Poi arrivarono "I buoni vicini". Mia moglie ed io li chiamammo subito così per la loro disponibilità e per l’immensa gentilezza ed umanità. Era una coppia di anziani coniugi di Salerno che avevano acquistato un casetta proprio al confine col mio terreno. Ormai in pensione, venivano per lunghi periodi e, nonostante la mia strenua resistenza, mi adottarono. Non andavano mai a tavola senza di me e, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricambiare le gentilezze che mi prodigavano. Qualche volta, quando c’era mia moglie, li invitavo a casa mia ma, comunque, rimanevo sempre in debito.

I miei cani poi, li adoravano: appena arrivavano loro, si trasferivano in massa per bearsi dei bocconcini prelibati distribuiti a piene mani, e di tutte quelle coccole che da me non ricevevano mai.

A nulla valevano i miei richiami ad un minimo di dignità e di orgoglio. Ogni tanto quel po’ di soldi che avevo incassato se ne andava per una riparazione straordinaria al trattore o per qualche necessario lavoro di consolidamento dei muri di tenuta del terreno, per evitare che mi franassero sulla casa. Ma non ero lì per far soldi ed ero contento di quel tipo di vita. Se soltanto i miei si fossero trasferiti...

Ma non si può avere tutto. Emma, nei suoi brevi soggiorni, tentava di adeguarsi: mi accompagnava a far visita a qualche vicino, e venne anche con me, una sera, alla festa del paese ad ascoltare la banda in piazza. Ma la sua natura di cittadina da fast-food, respingeva con tutte le forze quest’ambiente contadino che le era del tutto estraneo.

Quel periodo ha comunque donato a tutti noi dei ricordi straordinari, come quel Natale in cui rimanemmo per tre giorni isolati per la neve, o quella notte di primavera che trascorremmo quasi completamente all’aperto, incantati dalla campagna circostante che era tutto un brillare di lucciole.

Insomma... Tutto bene...

Tutto bene fino a quando arrivò la nube tossica di Chernobyl. Per la precisione, fino a quando arrivò la paura della nube tossica.

I miei prodotti che erano accettati, e talvolta superpagati, perché da animali che vivevano all’aria aperta, per la stessa ragione diventarono, da un giorno all’altro, da evitare come se fossero stati altamente tossici.

Le vendite si fermarono completamente e mi ritrovai a contemplare montagne di uova e di formaggi, ed una popolazione di polli e di tacchini che cresceva e si moltiplicava allegramente.

   
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