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XV

Punto e daccapo.

Ritornato in città a cinquantadue anni, mi toccò inventami un lavoro. Il mio brutto carattere mi impediva di chiederlo agli ex concorrenti, cosa che il mio socio aveva invece fatto subito.

Dovevo quindi ricominciare in un nuovo settore, dove non conoscevo nessuno e nessuno mi conosceva. Accettai la proposta di un mio cognato commercialista: una piccola azienda informatica, sua cliente, aveva bisogno di un direttore commerciale per rilanciare le vendite.

L'azienda era veramente molto piccola: due soci (fratelli) ed una segretaria. Mi ci dedicai col massimo impegno organizzando una piccola rete di venditori ma i due fratelli erano irrecuperabili: riuscii ad incassare solo il primo stipendio, poi vi rimasi gratis per alcuni mesi, pur di non uscire dall'ambiente di lavoro.

Riuscii a procurarmi una rappresentanza di gruppi di continuità e ripresi la mia vecchia attività di consulente finanziario. Le due cose, in abbinamento, funzionavano abbastanza bene perché, insieme con i gruppi, offrivo ai negozi di informatica, la possibilità di ottenere dei leasing che li aiutavano sensibilmente nelle vendite. Ero quindi di nuovo in grado di guadagnarmi da vivere e, devo dirlo, abbastanza abbondantemente.

Un giorno l'azienda produttrice di gruppi di continuità che rappresentavo, mi chiamò e mi fece una proposta: lasciare tutto e dedicarmi ad una nuova iniziativa: l'offerta di un software dedicato ai vigili urbani. Sarei stato assunto con un congruo stipendio, avrei avuto la completa disponibilità di un'auto aziendale e, naturalmente,il rimborso di tutte le spese.

Per quanto allettante, l'idea di mettermi a fare un lavoro dipendente non mi sorrideva molto. Ne parlai a mia moglie che, provata dalle passate esperienze, non era più la mogliettina adorante che, in altre occasioni, aveva detto "Vai e vinci!". Volle che accettassi la sicurezza di uno stipendio e non ebbi il cuore di deluderla.

Il lavoro non era male. Ero a capo di una piccola squadra formata da un tecnico, una specialista di software ed una persona bene introdotta nell'ambiente delle polizie municipali. Si andava su appuntamento e si dimostrava il prodotto con l'aiuto di un computer che portavamo sempre con noi. Non un portatile: quel software girava sotto un sistema operativo che non era possibile installare sui note-book ancora primitivi dell'epoca.

La dimostrazione era sempre un successo. Poi cominciava il mio lavoro con comandanti, assessori e sindaci. Le trattative erano lunghissime e snervanti e, se nel frattempo cambiava amministrazione, bisognava ricominciare daccapo.

Dopo quasi due anni di viaggi attraverso tutta l'Italia (isole comprese), cominciarono ad arrivare i primi ordini e, contemporaneamente, venne alla luce un grosso problema: il software, che in dimostrazione aveva sempre fatto la sua figura, all'atto pratico non andava bene: avrebbe necessitato di una revisione troppo lunga e costosissima.

Alla fine di una burrascosa riunione durata tutta la notte con i tre fratelli soci dell'azienda, il responsabile del software ed io, si decise di rinunciare al progetto. Io ero il più arrabbiato di tutti perché ero ad un passo dal successo, ma non ci fu niente da fare: l'Azienda non se la sentiva di affrontare ulteriori investimenti ed i primi ordini non sarebbe stato possibile evaderli in tempo utile.

Il giorno dopo diedi le dimissioni, ma i soci mi confermarono la loro fiducia e mi proposero di occuparmi della distribuzione dei gruppi di continuità. Era il mio lavoro: accettai con entusiasmo e mi dedicai alla formazione di una rete di vendita su tutto il territorio nazionale.

C'era solo un piccolo problema: i gruppi di continuità rappresentavano una parte molto piccola del fatturato aziendale, i prodotti erano buoni ma di concezione superata, c'erano solo tre modelli ed i prezzi non erano competitivi. Feci allora quello che oggi fanno tutti: me li andai a comprare a Taiwan.

I margini erano buoni, ma certo non erano quelli ai quali erano abituati i miei titolari, con la loro piccola produzione semiartigianale.

Le quantità però diventarono presto interessanti e si convinsero che il gioco valeva la candela.

Dei tre fratelli, uno era con me e mi appoggiava in tutte le iniziative di marketing, un altro era un tecnico puro e, con me, ci veniva solo a pescare, il terzo era l'amministratore che teneva i cordoni della borsa e, da buon contabile vecchio stampo, mi faceva le pulci. Era un'ottima persona ma, un po' per le nostre rispettive funzioni, un po' per i caratteri, alternavamo liti furiose a brevi periodi di armistizio.

La cosa durò qualche anno poi, una delle solite liti capitò in un momento in cui non riuscimmo a controllarci e si bloccò su di un unico argomento: se ero io a dare le dimissioni o lui a licenziarmi!

Avevo quasi cinquantanove anni ed ero disoccupato. Questo status però, durò solo tre o quattro giorni: avevo combinato abbastanza casino sul mercato e, prima che me ne rendessi conto, ero direttore commerciale di una piccola fabbrica di Caserta: produceva esclusivamente gruppi di continuità di taglia piccola e media, ma integrava la gamma con macchine acquistate da altri produttori e personalizzate.

Il titolare era un giovane imprenditore che aveva realizzato una bella struttura con l'aiuto di un finanziamento statale dopo anni di esperienza fatta con una piccola produzione nella cantina di casa.

Intendiamoci, al titolo di direttore non corrispondeva un adeguato stipendio o inquadramento sindacale, ma era comunque una retribuzione di tutto rispetto, alla quale si aggiungevano i soliti benefit: la macchina, il telefono, il rimborso di tutte le spese, eccetera.

Naturalmente mi ci misi d'impegno: creai una rete di agenti a livello nazionale e presi tre volenterosi ragazzi, ai quali insegnai pazientemente il mestiere per coprire, in modo capillare, tutta la Campania.

Il titolare era un uomo intelligente, che conosceva il mercato, i prezzi erano buoni, i prodotti accettabili ed i ragazzi ben motivati.

C'erano tutte le premesse per un buon successo commerciale, che non mancò: alla fine del terzo anno di attività il fatturato aveva superato tutte le più rosee previsioni ed era ancora in aumento.

Tutto bene dunque?

Qualche problemino c'era. La qualità del prodotto non era stabile: bastava un componente elettronico non perfetto per comprometterne la funzionalità o una  ritardata consegna per causarci problemi. L'azienda era piccola e non era in grado di acquistare i componenti direttamente alla fonte: questo non ci dava molto potere presso i fornitori, che non erano altro che importatori. Inoltre mi resi conto che non si acquistava presso chi aveva il prodotto migliore ma ci si rivolgeva a chi ci faceva più credito.

La nostra assistenza tecnica però funzionava abbastanza bene e riuscivamo a far fronte con sollecitudine alle proteste della clientela. I soldi comunque giravano ed i margini erano abbastanza alti.

Un'accorta politica degli acquisti sarebbe stata indispensabile ma, purtroppo, si continuò ad agire in modo approssimativo. Il titolare, come ho detto un ottimo ragazzo, cominciò a sentirsi un imprenditore di successo e cadde nella tentazione sempre in agguato di chi, per la prima volta, vede circolare un po' di soldi: si comprò una grossa BMW, la casetta la mare, si fece l'amante fissa.

Un ritardo nelle consegna di alcuni componenti ci portò ad un momentaneo blocco degli incassi, alcuni pagamenti furono troppo ritardati e ci causarono la perdita del fido da parte di importanti fornitori.

Una fornitura di componenti troppo economici causò seri problemi alla produzione e non fummo in grado di sostituire i prodotti difettosi.

Insomma, per farla breve, giungemmo ad un blocco totale dell'attività. Quando finalmente il nostro capo si decise a mostrarmi la situazione contabile, mi resi conto che eravamo sull'orlo del fallimento. Gli consigliai di contattare tutti i fornitori e, parlando apertamente, chiedere a tutti una lunga dilazione continuando a fornirci per contanti.

Ritenevo che nessuno avrebbe avuto interesse ad affossarci, ma non volle ascoltarmi.

Intanto i nostri agenti, stanchi di correre dietro ai problemi senza un prodotto da vendere e senza guadagnare, cominciarono ad allontanarsi, distruggendo quello che avevo faticosamente creato.

Quando mi resi conto che la situazione era irreversibile, ebbi un franco colloquio con il titolare: in quel momento per l'Azienda ero solo un peso e, secondo coscienza, dovevo andarmene. Dovevo ancora ricevere un paio di stipendi arretrati ma gli dissi che vi avrei volentieri rinunciato ed avrei fatto a meno anche della liquidazione che sapevo non era in grado di pagare. Gli chiesi solo di lasciarmi, fino a quando fosse stato possibile, l'uso della macchina che mi era stata a suo tempo affidata, in quanto mi sarebbe stata utile per organizzarmi un nuovo lavoro.

E fui di nuovo un libero disoccupato.

Che fare?

Il mercato richiedeva un certo prodotto e c'erano tre bravi venditori allo sbando... Li chiamai ed esposi loro il mio programma: avremmo potuto fondare una piccola società e, tra i tanti produttori di gruppi di continuità, trovare una rappresentanza per la Campania e, magari, anche per il Lazio.

Con pochi soldi a testa, creammo una s.r.l., dopo aver coinvolto anche un altro collega, che era un ottimo tecnico ed avrebbe potuto occuparsi dell'assistenza. In effetti eravamo in cinque e, ognuno di noi, ebbe il 20% delle quote.

Trovammo il locale adatto a contenere un piccolo deposito con annesso laboratorio ed iniziammo a contattare le aziende che ci sembravano più interessanti. Quando fummo convinti di aver individuato quella giusta, cominciammo a darci da fare visitando la nostra vecchia clientela.

Naturalmente il successo di vendite fu immediato, tanto da sbalordire i dirigenti della società mandante (una grossa multinazionale): non avevano mai venduto, in un anno, quello che noi vendevamo in un mese!

Furono un paio d'anni vissuti euforicamente sull'onda del successo. I problemi iniziarono quando l'azienda diventò abbastanza solida ed i soci (tutti molto giovani) cominciarono ad essere impazienti: mal sopportavano il pugno di ferro con cui ritenevo di dover amministrare.

Volevano partecipare, forse giustamente, a tutte le decisioni che pensavo di dover prendere da solo. Tentai in tutti modi di ricondurli a quella che per me era la ragione, fino a quando, visti inutili i miei sforzi, decisi di uscire dalla società e di trasferirmi a Roma, dove avrei organizzato, per conto mio, una struttura simile che avrebbe fatto lo stesso lavoro nel Lazio.

Fu così che giunsi a Guidonia, a dieci chilometri dalla capitale, affittai una villetta ed iniziai a lavorare. Prima da solo, poi con l'aiuto di una segretaria, ed in seguito, anche con un venditore.

   
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