XXVII

Il pazzo del corso

 Non posso dire di star male qui.

Gli infermieri sono gentili (basta non contraddirli), il vitto è mangiabile (non sono mai stato particolarmente goloso). Sento solo la mancanza di un buon bicchiere di vino, ma mi è categoricamente proibito. Il fatto che vi siano sbarre dappertutto per me non è un problema: non desidero assolutamente uscire.

Nelle ore giuste posso leggere quanto voglio e, ora che mi è stato permesso di tenere un PC, posso anche scrivere… Il collegamento Internet mi è stato negato ma, se riesco a farmi prendere in amministrazione, potrò usare i PC della “clinica”.

Il direttore mi ha detto che ho buone speranze perché sono un pazzo tranquillo” e loro, in amministrazione, hanno bisogno di aiuto.

La notte dormo piuttosto male: sono in camera con un povero ragazzo che si sveglia quattro cinque volte urlando e dimenandosi e, anche quando non dorme, protesta vivacemente per le cinghie che lo tengono assicurato al letto.

Anche per questo il direttore, gentilissimo, mi ha promesso che provvederà spostandomi con un malato terminale che non dà nessun fastidio.

Mi sono fatto anche molti amici. Ad una mia battuta di spirito sono capaci di ridere per tre giorni. Ce n’è uno che, ogni volta che mi incontra nei corridoi, mi dà grandi manate sulle spalle e si sganascia dalle risate per una cosa che credo di aver detto l’anno scorso…

Basta assecondarli e non farli arrabbiare. L’unica seccatura sono le visite settimanali dallo psicologo: insiste che devo guarire ed uscire di qui, ma io non sono pazzo..

Come vi dicevo , non sono pazzo. Solo se fossi pazzo desidererei ritornare in quell’inferno da cui  sono finalmente fuori.

Ma questo non posso dirlo al dottore: altrimenti mi fa uscire. Lui pretende che gli racconti tutto, ma io non lo farò mai: al massimo sarei pazzo, mica scemo!

A voi però lo voglio raccontare: so che mi capirete.

Quando ero savio avevo una piccola azienda, creata dal nulla, che mi permetteva di vivere decorosamente, anche se con un grosso impegno di energie e molti grattacapi.

Per una serie di vicissitudini e per la mala fede di alcuni, fui costretto a chiuderla, finendo anche in tribunale per far valere quelli che credevo i miei diritti e per difendermi dalle pretese di altri, che volevano far valere quelli che credevano fossero i loro diritti.

Il mio avvocato, un principe del foro, abbracciò la mia causa proclamando che avevo ragione su tutta la linea, poi, man mano che riceveva anticipi e passava il tempo, si rendeva sempre più conto che avevo torto.

E cominciarono le notti insonni: stavo ore ed ore a rimuginare una testimonianza che il mio avvocato non mi consentiva di fare.

Camminavo a lunghi passi nel soggiorno declamando un’arringa impossibile. Il giorno dormicchiavo in poltrona svegliandomi di soprassalto e con il batticuore ogni volta che squillava il telefono.

Ma a tutto c’è assuefazione, e stavo cominciando a calmarmi, quando giunse la seconda citazione: Un condomino mi chiedeva centinaia di milioni per un preteso danno che, a suo dire, gli avevo procurato effettuando dei lavori in casa mia.

La mia prima reazione fu di aspettare il condomino per le scale e fargliele fare tutte rotolando.

Ma ero e sono una persona civile. Mi limitai quindi a rivolgermi ad un altro avvocato che, contrariamente all’altro, mi disse subito che avevo torto, lui però sarebbe riuscito a togliermi dai guai.

E così ricominciarono le notti insonni ed i batticuore improvvisi.

Intanto, vedendomi così diverso da come mi conoscevano, i miei figli presero a trattarmi con una certa sufficienza. Mia moglie poi, non mi vedeva più come una fonte di reddito ma come una causa di eventuali grosse spese. Io ero irascibile: praticamente intrattabile.

Naturalmente, non lavorando più, ero sempre in giro per casa e mi sentivo sempre più inutile e di peso.

Litigavo con tutti per un nonnulla, vedevo che i miei figli non mi rispettavano più come prima, mia moglie poi, dopo una mia défaillance, non voleva più saperne di sesso. Io non ne avevo alcuna voglia, ma continuavo ad insistere per principio, e litigavo.

Volevo solo starmene tranquillo sulla mia poltrona; ma da una cosa non potevo esimermi: accompagnarla al supermercato una volta alla settimana.

Penso che per una persona in condizioni normali già sarebbe stato uno stress: per me era una tortura. In passato mi divertivo a farla arrabbiare buttando nel carrello le cose più impensate. Ora invece vagavo per il supermercato aspettando con impazienza, e ingannavo il tempo leggendomi le etichette sui prodotti esposti.

Il tragitto in auto poi mi distruggeva: tutte le macchine dovevano fare inversione di marcia quando arrivavo io, i camion si fermavano a scaricare in seconda fila per tempi impossibili, gli operai si muovevano con una calma olimpica e mi guardavano come per dire: - Cosa vuoi rompicoglioni? Aspetta e non sfottere!

La cosa però che non riuscivo proprio a sopportare erano le moto ed i motorini: su una strada stretta, dove potevano passare al massimo due macchine per volta, mi venivano incontro contromano, costringendomi in continuazione a fermarmi per farli passare, o mi sorpassavano su entrambi i lati piegandomi gli specchietti retrovisivi.

Ed anche i motociclisti mi guardavano schifati, come se avessero incontrato sul loro cammino, sulla loro strada, un essere immondo ed ingombrante.

E c’era sempre qualcuno che, con aria indisponente, si piazzava dietro a suonare il clacson mentre ero bloccato in una fila impenetrabile.

Io ero e sono una persona civile: stringevo i denti e tiravo avanti.

Arrivavo a casa con i nervi a fior di pelle poi, lentamente e con grande sforzo, cominciavo a calmarmi.

Allora era il momento in cui arrivava mia moglie tutta gentile e mi chiedeva:

- Hai telefonato all’avvocato? Cosa ti Ha detto?

Ed una nube rossa mi si parava davanti agli occhi… Un giorno, al ritorno dal supermercato, eravamo a metà strada ed i miei nervi erano già al massimo della tensione, mi fermai al solito incrocio senza semaforo. Si passava a turno solo grazie al buon senso degli automobilisti.

Quando finalmente arrivai ad impegnare l’incrocio, dovetti far passare milioni di veicoli che si buttavano davanti con prepotenza da destra e da sinistra poi, come per miracolo, alcune macchine si fermarono ed iniziai prudentemente l'attraversamento.

All’improvviso, tra due macchine ferme, spuntò un motorino e mi piazzò davanti la sua ruota anteriore. Il ragazzotto che lo guidava mi guardava dritto negli occhi con aria tracotante, pretendeva che mi fermassi ancora una volta per farlo passare.

Non persi i lumi: fu il mio piede che, invece di passare sul freno dall’acceleratore, vi rimase incollato e premette a fondo.

Poi, tra stridio di lamiere contorte ed urla di spettatori allibiti, imboccai la strada lunga e stretta che portava a casa mia al massimo della velocità possibile.

Mia moglie, seduta accanto a me era completamente ammutolita; si teneva attaccata ai braccioli fissando la strada che si snodava davanti a noi come in un videogioco: di fronte arrivavano le solite moto ed i soliti motorini, io gli puntavo dritto addosso senza rallentare…

Era un piacere vedere come schizzavano sul marciapiede tra i pedoni, nelle vetrine o, dall’altro lato, sulle macchine che stavano sorpassando con tanta disinvoltura.

Sotto casa lasciai l’auto con la spesa e mia moglie semisvenuta, feci quattro piani di scale di corsa, senza attendere l’ascensore, ed andai a chiudermi in bagno.

A questo punto i miei ricordi sono molto confusi, credo di aver vomitato anche l’anima e di essere rimasto seduto sul pavimento a tremare fino a sera, quando ripresi un certo controllo di me e cominciai a sentire i miei familiari che piangevano e mi chiamavano.

Si era in pieno luglio ma ero scosso da brividi di freddo: mi lasciai mettere a letto e, dopo pochi minuti, caddi in un sonno senza sogni.

Dormii per due giorni e due notti di seguito. Quando mi svegliai ero affamato e tranquillo. Dopo un’abbondante colazione, mi andai a sbracare sulla solita poltrona. Nel portariviste c’erano i giornali degli ultimi giorni ma, come al solito, non li toccai. Ormai erano mesi che non guardavo più un giornale. Non mi importava niente di niente.

Mia moglie volle mostrarmi un articoletto sul “pazzo del corso” ma la cosa mi lasciò completamente indifferente; ricordo che mi infastidì solo un piccolo errore di ortografia.

Poi, evidentemente istruita da un parente medico, la mia compagna, con dolce fermezza, mi mise sotto la doccia, mi costrinse a farmi la barba ed a vestirmi: - Devi uscire un po’, prendere aria, muoverti, altrimenti ti ammali. – Mi spinse fuori della porta e la richiuse alle mie spalle.

La mia mente lavorava lentamente, ma lavorava: - Ecco, è riuscita a liberarsi di me – pensavo – Le do’ troppo fastidio, magari deve telefonare a qualcuno… In questa casa non ci sto più bene: me ne devo andare…

La strada mi aggredì con un caldo soffocante, la luce del sole mi abbagliava, rimasi fermo a lungo fuori del portone, indeciso su quale direzione prendere, quasi fosse stata questione di vita o di morte.

Scegliere una direzione a caso mi costò uno sforzo che mi lasciò esausto. Mi imposi un’andatura lenta ma regolare. Camminavo a testa bassa ma, di sottecchi, guardavo le persone che incrociavo: fingevano di non vedermi, mi passavano accanto con indifferenza, ma io sapevo che non era così; mi studiavano di nascosto, solo qualche ragazzo mi guardava dritto in faccia con aria di sfida.

Sapevo cosa pensavano:

- Questo è il “pazzo del corso”, dovrebbe essere rinchiuso, è pericoloso… Un uomo di colore, vedendomi da lontano, cambiò marciapiede. Ero cero che la gente mi temeva, forse mi odiava.

Ed io cominciai a ricambiare quell’odio.

Al rientro trovai nella cassetta della posta cinque raccomandate: erano di avvocati che pretendevano risarcimenti esorbitanti per l’incidente” (dicevano loro) di tre giorni prima.

- Queste sono le prime di una lunga serie – pensai. Ma non mi avranno.

Seguì un periodo di relativa calma. Ormai sapevo di aver perso, mi avrebbero preso tutto, compreso la casa. All’avvilimento iniziale era subentrata una specie di rassegnazione:

I miei figli erano abbastanza grandi per affrontare da soli le loro difficoltà. Mia moglie aveva la sua pensione… Si sarebbe arrangiata in qualche modo. Io sarei andato a fare il barbone. Immaginavo nei dettagli la mia vita futura, mi sarei rintanato in qualche posto in montagna, lontano dalla gente che mi odiava, sarei vissuto di pesca, o di radici, o di quello che sarei riuscito a trovare. O mi sarei semplicemente lasciato morire.

Il solo problema era quando mia moglie mi costringeva ad uscire: camminavo radente ai muri, tentando di sottrarmi agli sguardi di disprezzo della gente, se vedevo una donna incinta la odiavo più degli altri: - Metterà al mondo un altro mio nemico – pensavo.

La mia vita in casa era un continuo dormiveglia. Poi cominciarono le visite degli ufficiali giudiziari. In genere erano gentili, ma io indovinavo la sottile soddisfazione con cui mi distruggevano.

Facevo finta di non accorgermene e tiravo avanti: presto sarebbe finita.

Quando giunse l’ultimo lo accolsi come avevo accolto gli altri, con cortese distacco. Questo però voleva per forza fare l’umano: tentava in tutti i modi di mostrarmi la sua comprensione falsa come una moneta da tre euro. Fingeva addirittura di provare pietà.

Fu questo che non sopportai: mentre era chino sul tavolo a scrivere l’ennesimo elenco delle mie povere suppellettili, presi un grosso vaso di bronzo, oggetto di innumerevoli inventari, e glie lo abbattei sulla testa con tutte le mie forze. L’ipocrita crollò al suolo con un lungo sospiro, come di un palloncino che si sgonfia, ma io continuai a colpirlo ripetutamente con tutte le mie forze, finché non fui esausto.

Per la prima volta, dopo tanto tempo, ero contento: Avevo riconquistato la mia dignità

Andai a cambiarmi, indossai una camicia pulita, un bel pantalone appena stirato ed uscii per la strada.

In strada mi sentivo leggero, camminavo spedito, a testa alta, guardando in faccia i miei nemici. Essi sentivano la forza del mio odio ed abbassavano lo sguardo. Finalmente sapevo cosa fare.

Entrai sorridendo dall’armiere, un mio vecchio fornitore che mi conosceva bene.

- Buongiorno signor Luigi, come sta?

- Salve signor Vincenzo. Io sto bene, lei si vede che sta benissimo. In cosa posso servirla?

- Vorrei un fucile da tiro con cannocchiale, una cosa leggera, magari un calibro ventidue. Possibilmente semiautomatico…

- Ho quello che fa per lei, questo gioiello della Franchi… Spara a colpo singolo o anche a raffica, basta spostare questa levetta. Il caricatore contiene sessanta proiettili.

- Lei me lo consiglia?

- E’ sicuramente un’ottima scelta.

- Bene, mi dia anche duecento cartucce, visto che spara anche a raffica…

- Ecco… Fanno 1150 euro, mi dà il suo porto d’armi?

- Si, subito, mi faccia vedere come si carica…

- E’ semplice, guardi, basta inserire il caricatore in questo vano…

- Ed è pronto a sparare?

- No, c’è ancora la sicura…

- Mi faccia vedere…

Presi il fucile in mano con l’aria di soppesarlo e, un istante dopo, quell’ipocrita aveva un piccolo foro in mezzo agli occhi.

Cadde dietro il banco.

Con calma, misi il fucile nel suo imballo, vi aggiunsi le cartucce e me ne andai a casa.

A quell’ora non c’era nessuno dei miei familiari. Chiusi la porta blindata a doppia mandata e mi sistemai sul balcone con una bibita fresca e le cartucce a portata di mano.

Finalmente mi sentivo vivo.

Avrete già capito che sono un ottimo tiratore, da giovane avevo anche preso un secondo posto ai campionati italiani di tiro a segno.

Quel fucile nelle mie mani faceva di me un altro uomo, che dico, un superuomo. E’ indescrivibile il senso di onnipotenza che ti dà il possesso di un’arma.

Imbracciai il fucile e mi misi in attesa del primo bersaglio: una moto montata da un giovane senza casco dall’aria indisponente. Quando lo colpii, la moto continuò a correre per più di cento metri e finì sulla fiancata di una Mercedes con mia grande soddisfazione.

Odio le Mercedes.

Poi fu la volta di un ragazzino che procedeva pericolosamente zigzagando su un motorino.

Quando cadde, una donna da un balcone di fronte si mise ad urlare: la fulminai a metà urlo. Arrivarono i familiari a soccorrerla e, man mano che la raggiungevano, li colpivo… Prima che si rendessero conto di cosa stava succedendo, su quel balcone si era formato un bel mucchietto di cadaveri.

Non so, quel pomeriggio, quanti ne colpii: dopo i primi cinque o sei persi il conto.

Alla fine mi catturò un pompiere che si era calato dal tetto, solo perché mi beccò in un momento che avevo il fucile scarico.

Però fu una bella avventura.

Ho voluto raccontarvela perché so che voi siete amici miei ed anche perché oggi sono particolarmente emozionato: il direttore mi ha detto che sono quasi guarito e che, in premio del mio comportamento esemplare, uscirò in permesso per due giorni.

Inizialmente la cosa mi aveva spaventato, ma poi mi sono

ricordato che conosco un altro armiere…

Quando torno vi racconto.

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