XXV

Sette settembre

 

Una data che non dice niente: nessun anniversario, nessun compleanno, nessuna scadenza… Eppure mi ricorda qualcosa… Ho la sensazione che si riferisca a qualcosa di piacevole, ad un tempo felice… Ma molto lontano…

Mi arrovello inutilmente: sono sempre più sicuro di non sbagliarmi.

Eppure, la mente dei vecchi ricorda molto più facilmente il lontano passato che non il recentissimo presente…

Poi, finalmente, un lampo: Piedigrotta! Ecco cos’era! Ora i ricordi si affollano tutti insieme: La mente ritorna a sessant'anni fa, quando ancora esisteva quest’antica festa popolare napoletana. La guerra era finita solo da qualche anno, l’economia cominciava a riprendersi, e la gente, che finalmente mangiava tutti i giorni, era ansiosa di divertirsi e dimenticare i dolori e le sofferenze patite.

Anche nella mia famiglia l’atmosfera era cambiata: mio padre, semplice impiegato, godeva della ripresa economica ricevendo tutti i mesi lo stipendio dall’azienda che finalmente prosperava.

Ricordo che, d’estate, affittavamo una casetta ad Ercolano (allora Ercolano era ancora verde) per fare i bagni e per far cambiare aria ad una delle mie sorelle che soffriva di una fastidiosa febbricola d’origine reumatica.

Si partiva, col camion della ditta, verso metà giugno, appena chiuse le scuole, e si ritornava ai primi d’ottobre alla riapertura delle medesime. Mio padre intanto faceva il pendolare con il trenino della Circumvesuviana.

Però, per i quattro o cinque giorni che durava la festa di Piedigrotta, si ritornava tutti a Napoli.

Abitavamo in un quartiere popolare: un vicolo del rione Sanità, in una grande casa al terzo piano.

Mi sembra ancora di risentire il chiasso che entrava da tutte le finestre spalancate: il popolo napoletano, già chiassoso per carattere, in quei giorni superava se stesso. Le donne, che lavoravano fuori dai bassi facendo scarpe o guanti, si apostrofavano con facezie e fantasiosi sfottò, e i bambini, tutti ma proprio tutti, e sopratutto tanti, erano muniti di multicolori trombette di cartone, e correvano per i vicoli soffiando a perdifiato nei loro micidiali strumenti.

E ce n'erano di tutti i colori, frutto della recente occupazione degli alleati”. Ma nessuno ci faceva caso.

La sera ci si riversava per la strada, tutti in cammino nella stessa direzione: Attraverso via Toledo (In verità ora si chiama via Roma, ma i napoletani non hanno mai accettato questa novità) si raggiungeva la riviera di Chiaia, per terminare il festoso pellegrinaggio a Mergellina, alla Chiesa della Madonna di Piedigrotta.

Queste strade diventavano un fiume in piena di una folla gioiosa e vociante, il suono monocorde delle trombette era ossessivo. Tutti erano rigorosamente muniti di coriandoli, stelle filanti, lingue di menelicche e “scopettini”.

I coriandoli si gettavano continuamente su tutti i passanti. Il divertimento di noi ragazzi era di riuscire a centrare in bocca, con una manciata di coriandoli, le persone che parlavano o ridevano, o di far trasalire i distratti allungandogli davanti al naso la lingua di menelicche.

Lo scopettino era formato da una cannuccia lunga poco meno di un metro, che aveva, ad un’estremità, un mazzetto di strisce di carta multicolori a mo’ di scopa. Si agitava in faccia alle persone, come per ripulirle dai coriandoli. In caso di necessità, impugnato nel verso contrario, diventava un’efficace arma di difesa.

E poi c’era il “coppolone”. Il coppolone era un grande cono di cartone legato per il vertice all’estremità di una canna lunga quattro o cinque metri. Il divertimento consisteva nel calarlo, da una certa distanza, in testa all’ignaro passante che, all’improvviso, si trovava immerso nel buio.

Del coppolone esisteva anche una versione col solo filo di spago, ed era usato dai balconi e dalle finestre dei piani bassi delle case.

La meta della nostra famiglia era proprio uno di questi balconi: il deposito di un amico farmacista da cui si poteva ammirare la festa e, soprattutto, il passaggio dei carri allegorici e della “cavalcata”.

Ogni carro rappresentava una canzone, e la cavalcata era una spettacolare parata di cavalieri in costume dell’esercito borbonico seguita per tutto il percorso da un codazzo di scugnizzi schiamazzanti.

La festa si chiudeva, l’ultimo giorno, con i “fuochi a mare”, un grandioso spettacolo pirotecnico che numerosi fuochisti, in gara tra loro, offrivano da zatteroni ancorati nel golfo, di fronte alla via Caracciolo.

La gente, da terra, osservava incantata queste straordinarie esibizioni che il riverbero nel mare calmissimo rendeva ancor più meravigliose, ed applaudiva ai fuochisti più bravi.

Io non scorderò mai quella volta che, con un gruppo di amici, mio padre ci condusse a vedere i fuochi dal mare: fu una notte di sogno per me quindicenne che già subivo il fascino del misterioso ambiente marino.

Ci imbarcammo tutti su di un grande gozzo da pesca e, condotti da un amico pescatore, Ciccio ‘o russo” (che da allora elessi a mio miglior amico), ci andammo ad ancorare in una posizione strategica, da dove ci godemmo lo spettacolo dei fuochi, sgranocchiando taralli sugna e pepe, bevendo birra gelata presa da un mastello pieno di ghiaccio, e succhiando, direttamente dalle valve, centinaia di cozze ancora vive, che si contraevano vivacemente a contatto del succo di limone di cui le aspergevamo prima di sacrificarle alla nostra estrema goduria.

Ora le cozze crude non si possono più mangiare (si rischia come minimo un colera) ma, se dovessi decidere di lasciare questo mondo, lo farei certamente su una barchetta, ingoiando cozze vive fino a scoppiarne.

Che dire ancora? I tempi sono cambiati, la gente è cambiata.

Ripensare a queste cose è solo sterile malinconia di un vecchio rinco che si crogiola nel ricordo di “’o popolo ‘e na vota…” e… delle cozze crude.

indietro avanti
     

 

>